Il testo che ho scritto, vuole essere un supporto alla visita, include una breve introduzione e una selezione di artisti rappresentati nella collezione, che a mio avviso sono rappresentativi dell’arte milanese della metà del Novecento.

Per ogni autore è possibile un approfondimento cliccando sul nome, che dà accesso ad un link esterno!

Collezione Mazzolini

A Piacenza da un decennio si parla di questa donazione, acquisita dalla Diocesi di Piacenza e Bobbio composta da un elevatissimo numero di opere: 899 tra dipinti, disegni, sculture. Tutte opere d’arte novecentesche, perlopiù di artisti italiani.

La collezione è stata esposta in mostre temporanee, ha in seguito trovato una collocazione provvisoria presso la Galleria Alberoni, ed infine, a dieci anni dall’acquisizione, ha trovato un sito espositivo permanente nella città di Bobbio, dove le esperienze di raccordo con altri enti hanno già preso piede, in meno di un anno di attività: durante l’estate alcune opere di un’altra collezione cittadina concessa alla comunità –  la raccolta di Giuseppe Ricci Oddi – sono state esposte accanto a quelle di Mazzolini.

Il Collezionista

Oggi si tengono corsi per collezionisti in erba, ma raccogliere, collezionare, accumulare oggetti, opere, libri, manufatti è insito nello spirito umano e l’azione produce piacere in colui che la pratica. Le ragioni sono le più disparate.

La collezione che è oggi conosciuta come “Mazzolini” include le opere raccolte da due distinti collezionisti: Giovanni Battista Ettore Simonetti e Domenica Rosa Mazzolini. Imprescindibile, per comprendere la collezione, entrare nelle vite di questi personaggi, nelle esperienze, immergersi in un’epoca, in una storia rivivere i momenti che hanno dato vita a questa raccolta.

“Giovanni Battista Ettore Simonetti conseguì la laurea in Medicina e Chirurgia all’età di 23 anni presso l’Università degli Studi di Milano. Fu un uomo geniale, animato da un profondo amore per la professione medica. Un amore che lo portò a comporre un curriculum studiorum a dir poco invidiabile, unico nel suo genere. Chirurgia vascolare, gastroenterologia e diabetologia rappresentarono solo un’esigua parte dei tanti settori clinici nei quali si era specializzato nel corso degli anni, sostenendo non pochi sacrifici. Il desiderio di ampliare le proprie conoscenze lo spinse a trasferirsi prima in Germania, dove si perfezionò in ematologia, e poi in Francia, dove per tre anni studiò le patologie del retto all’Hôpital de la Pitié Salpêtrière di Parigi. Forte dei suoi successi internazionali, decise di continuare in Italia le ricerche aprendo uno studio proctologico a Milano, a pochi passi dal Duomo. Qui si dedicò alla cura delle patologie del tratto ano-rettale e delle affezioni del sistema venoso. La sperimentazione di un metodo chirurgico rivoluzionario per il trattamento delle fistole gli valse la stima della comunità scientifica mondiale, che regolarmente lo invitava ai convegni più prestigiosi per relazionare. Ne frattempo il suo Manuale di proctologia venne tradotto nelle principali lingue, riscuotendo larghi consensi. L’origine della sua tecnica innovativa, come lui stesso dichiarò in più di una occasione, risaliva all’osservazione di una serie di disegni rinascimentali raffiguranti proprio l’anatomia del retto. Queste antiche rappresentazioni grafiche si rivelarono per lui realmente illuminanti. Simonetti fu intimamente affascinato dall’arte, che da quel momento arrivò ad abbracciare ogni singolo aspetto della sua vita.”(Teodoro de Giorgio, Il medico degli artisti. Ritratto di un collezionista, in L’eredità del Novecento. I capolavori della collezione Mazzolini, Livorno ed. Sillabe, p. 10)

Domenica Rosa Mazzolini, originaria di Brugnello, si trasferisce nell’immediato dopoguerra a Milano, per svolgere il lavoro di infermiera, per dare sollievo ai malati e per poter contribuire all’economia familiare. Domenica Rosa la cui passione per l’arte era cresciuta dall’età giovanile, quando osservava il fratello dipingere, giunta a Milano scopre le opere di artisti contemporanei, in particolare conosce la cognata di Filippo Tomea, grazie alla quale ha accesso allo studio dell’artista dove vede le Candele. Essendo già in servizio come assistente presso lo studio di Simonetti ne parla con il medico e da quel momento nasce un’esperienza che porta a costruire per ognuno dei due una collezione. Dopo la morte di Simonetti e della sorella Domenica Rosa Mazzolini riceve in eredità l’intera collezione di opere d’arte.

A questo punto per una donna legata alla proprie origini, umile e dedita al prossimo non è semplice accogliere tanta ricchezza. La reazione, dopo l’incontro con l’allora vescovo di Piacenza e Bobbio Luciano Monari, è di donare l’intera collezione alla collettività. (L’eredità del Novecento. I capolavori della collezione Mazzolini, Livorno ed. Sillabe)

Milano e l’arte nel cuore del XX secolo

Nel primo dopoguerra Milano diventa ricettacolo di artisti provenienti da tutta la penisola; la presenza di tanti artisti porta alla luce diversi temi che diventano oggetto di dibattito: la politica, il realismo, la scienza, lo spazio, la metafisica. Emergono una serie di esperienze: vengono redatti i manifesti del Realismo e dello Spazialismo, si fondano il Fronte Nuovo delle Arti e il Movimento Arte Concreta (MAC).

In questo ambiente traboccante di stimoli si creano raccolte e collezioni, tra le quali quelle di Simonetti e Mazzolini: fondate spesso sul personale rapporto tra artista e collezionista, senza il filtro della galleria, che come figura accresce all’epoca la propria importanza.

Protagonisti

Piero Manzoni (13/07/1933 Soncino – 6/02/1963 Milano) si forma presso l’accademia di Brera, inizia come artista classico dipingendo con olio su tela; ma dalla metà degli anni Cinquanta inizia a sperimentare nuovi materiali, tra i quali il catrame, nello stesso periodo si avvicina a Baj e Dangelo. Nel 1957 con loro entrerà a far parte del movimento nucleare. Nello stesso hanno inizia a lavorare agli Achrome realizzati in gesso e colla, che aprono una sperimentazione che porta a risultati differenti tra loro. Nel 1959 con Enrico fonda la rivista Azimuth che introduce in Italia artisti come Jasper Johns e Robert Rauschenberg; nel 1960 sempre con Castellani apre la galleria Azimuth dove realizzerà diversi happening tra i quali Consumazione dell’arte attraverso la sua divorazione, durante la quale vengono mangiate uova sode che portano un’impronta digitale dell’artista. Nel 1961 realizza una delle sue più celebri opere “la merda d’artista”. Prima della prematura morte avvenuta nel 1963 espone a Parigi, dove ha modo di conoscere Tynguely, Arman e Yves Klein, che aveva ispirato i suoi Achrome.(L’eredità del Novecento. I capolavori della collezione Mazzolini, Livorno ed. Sillabe, p. 156)

Gli Achrome di Manzoni non sono dipinti ma opere realizzate immergendo la tela nel caolino, la terra bianca con la quale si fa la porcellana, nella colla o nel polistirolo; la piega imprime di volta in volta una forma differente, una differente sensazione, un distinto significato. Da queste sperimentazioni si passa ad un’arte che è sempre meno manufatto e sempre più happening: la firma consacra e trasforma in opera d’arte alcune donne, ovvero le Sculture viventi; il fiato soffiato in un involucro gonfiabile, fino ad arrivare ad inscatolare i propri escrementi Merda d’artista.(Piero Adorno, L’arte Italiana, Messina-Firenze D’Anna Editrice, pag. 1099)

Alla collezione appartiene un Achrome.

Filippo de Pisis (Luigi Tibertelli: Ferrara 11/05/1896-Brugherio 1956) affetto sin dall’infanzia da disturbi neurologici, viene ricoverato presso un ospedale psichiatrico a Venezia. Vive in seguito tra Ferrara e Bologna, dove studia lettere filosofia, botanica, entomologia, arte antica e moderna. Si riconosce più come letterato che come artista, un intelletto raffinato e dotto. Come artista aderisce  attorno al 1917/19 al movimento metafisico; nel periodo a cavallo della prima guerra mondiale conosce De Chirico, che rincontrerà a Parigi. Dal 1925 si trasferisce a Parigi dove rimane sino allo scoppio del secondo conflitto mondiale; tra il 1927 e 1930 affina un tratto che lo rende unico: un tocco rapido e leggero combinato ad una espressione della luce diafana capace di provocare una sensazione di estraniamento. Colpi di colore che rimandano alle opere impressioniste di Monet, tipici della pittura dal vero, ma affetti da una foga che lascia scoperta la tela, troppo intento a rincorrere l’attimo da immortalare. Con lo scoppio della guerra De Pisis torna a Milano per poi trasferirsi a Venezia, città impressionista per eccellenza, ma anche città del vedutismo e dei colori luminosi di Tiepolo.

Appartiene alla collezione Hommage a Morandi del 1937. Opera che celebra il maestro bolognese del tempo fermo negli oggetti ritratti in nature morte. Un’opera che restituisce al contempo il carattere sfuggevole della pittura di De Pisis, fatta di tratti brevi che smuovono spazi uniformi campiti. La pittura di De Pisis  esprime l’essenza di un tempo che passa, lascia tracce di attimi.

La collezione raccoglie in totale sette dipinti dell’autore: il rapporto con questo artista era intimo al punto che Domenica Rosa Mazzolini fu una delle poche persone che parteciparono al funerale.

Aligi Sassu (Milano 1912 – Majorca 2000) reagisce sin dalla gioventù all’accademismo artistico, aderendo per un breve periodo al futurismo marinettiano, dal quale si stacca per avvicinarsi a Manzù e Birolli. Sceglie una pittura impegnata ricca di riferimento ai cromatismi e ai modi di van Gogh e dei Fauves. È tra i protagonisti del movimento “Corrente”. Sarà un antifascista militante anche attraverso la pittura che utilizza per rappresentare scene di denuncia come “Fucilazione” (Piero Adorno, L’arte Italiana, Messina-Firenze D’Anna Editrice, pag. 1049-50)

Giò Pomodoro (Orciano di Pesaro 17/11/1930 – Milano 21/12/2002) di quattro anni più giovane del fratello Arnaldo lo aiuta inizialmente nella produzione di oggetti di oreficeria. Si avvicina al gruppo che lavora alla rivista “Il Gesto”, prende il distacco dalle opere del fratello prediligendo bronzo, marmo in grandi lastre, composte a creare spazi che sempre si rapportano con il sole, vero protagonista di molte opere dell’artista. (L’eredità del Novecento. I capolavori della collezione Mazzolini, Livorno ed. Sillabe, p. 152)

Della collezione fa parte Sole nero, opera di piccole dimensioni acquistata dal marito di Domenica Rosa e donato alla collezionista. La scultura ben evidenzia la ricerca dello scultore che mette in gioco pesanti blocchi di materiale componendoli in una sorta di scultura macchina.

Renato Birolli (Verona 1905 – Milano 1959) protagonista dell’opposizione a “Novecento” e del rinnovamento della pittura italiana. Antifascista , tra i fondatori di “Corrente”, rientra tra gli artisti realisti: si esprime attraverso il colore caldo, mediterraneo. Dopo i contatti con Picasso nel 1947 il suo realismo prende una forma sempre più astratta, tendendo all’informale. (Piero Adorno, L’arte Italiana, Messina-Firenze D’Anna Editrice, pag. 1062-63)

Bruno Cassinari (Gropparello 28/10/1912 – Milano 1992), si forma presso l’istituto Gazzola nella città di Piacenza, per poi riuscire a frequentare alcuni corsi a Milano presso Brera e il Castello. Parteciperà e verrà premiato alla Biennale di Venezia, le sue opere verranno esposte a New York, Londra e Monaco. Molte opere includeranno il tema della figura umana con riferimenti più o meno esplicita alla figura materna, per lui fondamentale (L’eredità del Novecento. I capolavori della collezione Mazzolini, Livorno ed. Sillabe, p. 152). Come Morlotti e Santomaso passato per l’ esperienza del cubismo  sviluppa una tendenza alla trasfigurazione della realtà (Piero Adorno, L’arte Italiana, Messina-Firenze D’Anna Editrice, pag. 1063).

Carlo Carrà (Quargnento, AL 1881 – Milano 1966) durante la propria esperienza si avvicina a correnti artistiche di rilievo; in primo luogo il futurismo, che rappresenta per lui una rottura nei confronti dell’accademismo. Nonostante la forza del movimento per Carrà la solidità delle immagini non diventa sfuggente come in altri autori. Punto di riferimento per tutta la carriera dell’artista rimarranno alcuni grandi autori italiani: Giotto e Piero della Francesca; ma sarà coinvolto e traspariranno nella sua ricerca l’arte di Cézanne e del Cubismo.

Seconda corrente alla quale Carrà si avvicina è la Metafisica, diversa da quella di De Chirico, ma concettualmente affine, poiché Carrà inserisce nelle proprie opere blocchi vari per entità e significato che si accostano l’un l’altro in uno spazio. Il loro realismo è svuotato attraverso l’utilizzo di linee nette, ombre taglienti che isolano i singoli volumi: riducendo la realtà al minimo, all’essenziale la riporta ad un piano che è quello dell’idea. La realtà che dipinge non è quella esterna ma quella interiore, i paesaggi che insegue a partire dagli anni ’20 sono quelli che meglio si confanno al suo sentimento. A quest’ultima produzione appartengono le opere esposte della collezione Mazzolini: Paesaggio in Versilia e Marina con case, entrambi datati 1952(Piero Adorno, L’arte Italiana, Messina-Firenze D’Anna Editrice, pag. 879-882).

Mario Sironi (Sassari 1885 – Milano 13/08/1961) si forma presso l’accademia di Belle Arti di Roma; nei primi anni del 900 si trasferisce a Milano, dove, nel 1914 aderisce al Futurismo. Si arruola durante la guerra. Aderisce al regime fascista al quale durante il ventennio cerca di dare un volto, un’immagine. I riferimenti per l’arte fascista guardano al passato classico e Sironi conduce una ricerca che restituisce la forza nei volumi dei corpi, potenti e rigidi. Sironi crede fortemente nella pittura e nell’arte murale: esempio di arte disponibile per le masse, che comunichi con la popolazione. In proposito presenta anche un Manifesto dell’arte Murale. La critica lo ha a volte sminuito per questa sua cieca adesione al fascismo, ma ha valutato in maniera più positiva la ricerca che l’autore ha portato avanti nelle opere di piccolo formato, dove emergono impietose immagini di periferie cittadine, o figure dalla rara espressività, rese con uno stile inconfondibile. Nel dopoguerra i toni delle opere di Sironi si fanno sempre più cupi.

Alla collezione appartengono alcune opere su carta di piccolo formato degli anni Cinquanta.

Fiorenzo Tomea (Zoppé di Cadore 1912 – Milano 1960), Nel 1928 si trasferisce a Milano ed entra nella cerchia di Birolli e Manzù. È premiato alla permanente nel 1937 per l’opera Candele e Maschere. Nel 1938 partecipa alle attività del gruppo Corrente, e nel dopoguerra inizia a dedicarsi alle nature morte e ai paesaggi (L’eredità del Novecento. I capolavori della collezione Mazzolini, Livorno ed. Sillabe, p. 159).

Domenica Rosa Mazzolini appena giunta a Milano ha occasione di conoscere la cognata di Tomea, che la condurrà nello studio dell’artista. Sarà proprio parlando di Candele con Simonetti che inizierà lo scambio sull’arte tra i due. L’opera, nella sua disarmante semplicità riesce a far percepire allo spettatore l’idea dello spazio attraverso il gioco delle candele che assumono posizioni e dimensioni al limite del reale, in un dipinto  che si attiene alla realtà senza arrivare a trasfigurarla del tutto, ma lasciando la trasfigurazione quasi in sospeso.

Giorgio De Chirico (Volos GR 23/07/1888- Roma 20/11/1957), nato in Grecia, formatosi presso l’accademia di Belle Arti  di Monaco di Baviera, si appassiona di artisti come Böcklin e Klinger studia le opere filosofiche di Nietzsche e Schopenauer. Negli anni Dieci del Novecento vive a Firenze e si trasferisce a Parigi dove espone i primi paesaggi metafisici. Nel 1915 torna in Italia per il servizio militare e, assegnato a Ferrara conosce Carrà, De Pisis e il fratello Alberto Savinio. La sua arte parla della necessità di dialogare con la classicità, interesse che diventa sempre più forte; approfondisce le tecniche pittoriche approdando alla redazione di un Piccolo trattato di tecnica pittorica. Negli anni Trenta opere ispirate ai soggetti classici greco romani. Negli anni Cinquanta la maturità del periodo Metafisico fatto di inquietanti manichini, piazze d’Italia vuote e assolate, l’ombra dell’industria a fianco di reperti archeologici. L’ultimo periodo vede un ritorno al realismo, magniloquente e baroccheggiante.

Alla collezione appartengono: I Gladiatori (titolo originale: La lutte) in tutta probabilità databile 1929 è  riconducibile al periodo parigino. Si tratta di un ciclo di circa 60 opere dedicate a questo soggetto classico dal quale emerge  una rivisitazione soggettiva da parte dell’autore che fa emergere un tema autobiografico, la violenza, le suggestioni cinematografiche dell’epoca nonché la poetica picassiana.

Ippocrate rifiuta i doni opera del 1955 è profondamente legata alla storia del collezionista; che respinge la medicina praticata negli ospedali e riesce ad ottenere risultati eccezionali attraverso la pratica ambulatoriale. In quest’opera appartenente all’ultimo periodo della produzione di De Chirico il protagonista occupa il centro della scena con la sua veste rossa; volge lo sguardo accompagnandoci alla fanciulla sulla destra dell’opera alla quale il giovane sulla sinistra fa da contraltare. Colori chiaroscuri, punti di luce creano un’immagine baroccheggiante.

Esculapio Proctologo 1950-55 una tra le opere più care e utilizzate dal Simonetti nelle proprie conferenze. Raffigura un personaggio dell’antichità con gli strumenti da lavoro propri di quell’ambito medico. Simonetti chiederà il permesso per poter proiettare le diapositive delle opere realizzate da De Chirico in alcuni convegni internazionali.

Metafisica e Piazza d’Italia appartengono invece al De Chirico più noto che dipinge paesaggi vuoti dove campeggiano figure senza volto, anonime architetture imperfettamente proporzionate, dove al cento della scena si trovano espliciti rimandi alla cultura classica, unico elemento di morbidezza in un ambiente asettico dove, come un monito sullo sfondo campeggia il tema dell’industrializzazione.

Metafisica, è un’opera non datata concentrata sull’oggetto del manichino, spesso protagonista delle opere metafisiche di De Chirico. Qui se ne svelano i dettagli interiori, lo si mette a nudo in una sorta di immagine impossibile che vede dietro alla struttura emergere un’ombra bianca. L’immagine resta irrisolta e confonde lo spettatore per la pluridirezionalità delle luci che creano ombre in scorci improbabili. Sullo sfondo l’architettura, bianca svettante a dominare l’orizzonte, abbinata a caseggiati industriali rossi, bassi.

Certamente un’opera di difficile lettura restituisce la complessità di pensiero di un artista contemporaneo che ha vissuto un tempo travagliato, di continue scosse e cambiamenti.

I rapporti dell’autore con Simonetti furono intensi, alcune opere come l’Esculapio e i Doni di Ippocrate furono commissionate dal collezionista che sapeva aggraziarsi gli artisti; a De Chirico, sapendolo goloso faceva inviare Marron Glacé. De Chirico, per contro faceva spesso riferimento a Simonetti, anche per semplici malanni di stagione.

Ottone Rosai (Firenze 1895 – Ivrea 1957) inizia la propria formazione all’accademia di Santa Croce a Firenze, ma è espulso nel 1908, il rapporto con le istituzioni scolastiche per Rosai non sarà mai lineare. Partecipa al futurismo, e nel 1919 aderisce ai fasci futuristi. Nel 1926 avvia la rivista “Il Selvaggio” con Maccari; la collaborazione prosegue sino al 1929 e attorno alla rivista si forma un gruppo con il quale Rosai esporrà. All’esperienza futurista seguono quella del purismo e della metafisica: Rosai sarà influenzato da Morandi e Carrà. Nel 1957 sarà attivo presso il Centro Culturale della Olivetti ad Ivrea (L’eredità del Novecento. I capolavori della collezione Mazzolini, Livorno ed. Sillabe, p. 158).

La critica davanti alle opere di Rosai si divide, giudicandolo talvolta naif, talvolta erede dei pittori del Trecento e Quattrocento toscano.

Di quegli autori in realtà spesso non resta che una traccia nella semplificazione delle forme e nella monumentalità, molto più interessante, è il risultato delle opere che narrano le periferie cittadine, le strade, i bar, le persone. I soggetti nelle opere di Rosai sono avvolti da un manto di fumo che sbiadisce i contorni rendendoli illeggibili, anche quando si tratta di ritratti a monumenti come la cupola di Brunelleschi o il campanile di Giotto: ne risulta una critica a quel regime al quale l’artista aderisce, manca però il guizzo, la forza e l’irruenza di certe opere europee come quelle di Otto Dix o Grosz.

A Simonetti e Mazzolini Rosai piacque e diverse sono le opere incluse nella collezione, la stessa Domenica Rosa Mazzolini ammette un particolare affetto verso l’artista che frequentava lo studio di Simonetti e che il giorno prima di essere trovato morto in una stanza di albergo si era recato allo studio per consegnare l’opera “il cupolone e il campanile di Giotto” ancora “fresco di pintura” e si era raccomandato con la Mazzolini di prestare particolare attenzione.

Massimo Campigli (Berlino 4/07/1895 – Saint Tropez 31/05/1971) vive l’infanzia tra la Toscana e Milano. Prima dell’inizio della Prima Guerra Mondiale si avvicina all’ambiente del Corriere della Sera e aderisce al Futurismo per poi arruolarsi volontariamente. Durane gli anni Venti inizia il proprio percorso artistico a contatto con i maggiori artisti francesi dell’epoca. Si afferma come artista esponendo in Italia e all’estero, ma nel 1927, venuto a conoscenza dell’arte Etrusca rinnega le proprie opere precedenti. I successi internazionali lo portano a New York tra i protagonisti della rassegna “Twenty Century Italian Art” nel 1949, a Parigi, Monaco, Melbourne, Sidney ed infine Palazzo Reale a Milano gli dedicherà un’antologica.

Il percorso di Campigli si pone controcorrente con l’espressione soggettiva: attraverso lo studio dell’antico persegue e raggiunge il massimo della stilizzazione. Da questa ricerca nascono figure dal contorno rigoroso campite a creare definite zone cromatiche giustapposte; le immagini assumono così un aspetto arcaico che nulla cede alla piacevolezza; l’applicazione pittorica più che ad olio appare come ad affresco. Lo stile dell’artista acquisisce un’unicità che lo rende riconoscibile e ne esalta la cifra stilistica.

Alla collezione appartiene Simonetta dipinto nato ad hoc per il dott. Simonetti del quale Campigli fu paziente. Esiste un intenso rapporto epistolare tra i due, dove si prendono accordi, appuntamenti e che si concludono con un esito positivo per entrambe le parti: una soluzione per la salute dell’artista ed un dipinto per il medico: “sto benissimo – scriveva l’artista – e gliene sono grato. Ma no manchi di informarmi al Suo passaggio da Parigi, sarò lieto di rivederla. Il quadro come lo chiamiamo? Io non d’ho mai titoli caratteristici, non vado oltre Ragazze, Busto o simili. E se lo chiamassimo Simonetta? Purché Botticelli non protesti”(Lettera 20 marzo 1956).

Giuseppe Capogrossi (Roma 1900- 1972) è allievo di Felice Carena inizia ad esporre nel 1927, prima in mostre collettive a Roma poi a Milano al Milione e a Parigi. Dagli anni Trenta gli anni Cinquanta aderisce ad un affinato formalismo pittorico dove lo spazio prospettico prende forma da una composizione di piani colorati nel 1948 si avvicina alle concezioni dello spazialismo  per approdare, come sostiene Argan,  ad una “identità di forma e di segno”. Nel 1951, con Burri, Ballocco e Colli crea il “Gruppo Origine”. Dal 1952 si avvicina al gruppo milanese degli spazialisti. Esporrà e verrà premiato alle maggiori manifestazioni internazionali.

Alla collezione appartengono opere su tela e disegni su carta. Per riuscire ad entrare nell’opera e cercare di leggerla è necessario recepire un punto di partenza, dichiarato dallo stesso Capogrossi: ”Fin dal principio ho cercato di non accontentarmi dell’apparenza della natura: ho sempre pensato che lo spazio è una realtà interna alla nostra coscienza, e mi sono proposto di definirlo. Al principio ho usato immagini naturali, poi ho cercato direttamente di esprimere lo spazio che era dentro di me”(Arte Contemporanea. Anni Cinquanta, 2007 Milano Electa, p. 48). Capogrossi inventa un segno:il tetradente, lo fa proprio, e lo usa sempre uguale, ma per creare composizioni differenti, come fosse l’unica lettera di un alfabeto, che ripetendosi creasse frasi differenti. SI tratta di un tipo di segno che rimanda ai primordi, alle incisioni rupestri, ma a questo coniuga una estrema unicità che lascia immediatamente riconoscere l’autore. Trattandosi di una riflessione sullo spazio come concetto interiorizzato dall’artista in tal senso sono da leggere le composizioni, realizzate non solo dalla componente del segno, ma anche dalla componente cromatica.

Luigi Veronesi (Milano 1908-1998) a Milano nasce, studia, partecipa alla vita artistica; ma l’ispirazione che guida la sua produzione più matura la cui sperimentazione inizia negli anni Trenta è da ricercare nelle opere di Léger, di Bauhaus, del movimento Abstraction Création.

A Milano prenderà parte al MAC, Movimento Arte Concreta, che si esprime attraverso l’arte astratta secondo strade diverse. All’estero la pittura concreta trova tra i protagonisti Mondrian e De Stijl, che intendono per pittura concreta quella basata sull’astrazione geometrica. IN altri contesti il termine “concreto”” può avere risvolti differenti.

Veronesi svilupperà studi sul colore che saranno oggetto delle lezioni che terrà in qualità di docente presso l’Accademia di Brera; interessante è la composizione che include il colore e le linee in una composizione di grande impatto, pur nel piccolo formato.

Enrico Baj (Milano 31/10/1924 – Milano 2003), si forma presso l’Accademia di Brera, inizia la propria attività con il gruppo del “Movimento Nucleare” fondato nel 1951; la sua prima personale si tiene alla Galleria San Fedele di Milano. Nel 1953 promuove il movimento per un “Bauhaus imaginiste”, si avvicina a Max Bill. La sua sperimentazione va dalle tele realizzate con la tecnica del dripping alle tele nucleari alle Montagne (ottenute con colori sintetici emulsionati in acqua). Nel 1963 espone a New York , l’anno successivo ottiene una sala personale alla Biennale di Venezia e partecipa alla Triennale con un environment della sezione curata da Eco. (L’eredità del Novecento. I capolavori della collezione Mazzolini, Livorno ed. Sillabe, p. 152)

Baj con Dangelo sono protagonisti della redazione del manifesto Nucleare, Bruxelles 1952; che rappresenta una reazione alle bombe lanciate in Giappone. Nel Manifesto si dichiara che tutta la materia è energia e attraverso l’arte questa energia viene liberata. A differenza dello spazialismo di fontana che aderisce ad una ricerca sulla tecnologia attraverso l’uso dell’elettricità l’arte nucleare si rifà a tecniche più tradizionali, utilizzate dalle avanguardie come il frottage, il dripping, l’emulsione. Questa ripresa dal passato non è casuale, ma mirata a recuperare tecniche che avevano rappresentato un momento di rottura con il passato.

Lucio Fontana (Santa Fè ARGENTINA 19/02/1899 – Comabbio o7/09/1968) nato in Argentina da genitori di origine italiana, si trasferisce a Milano nel 1928, dove segue i corsi di Adolfo Wildt presso l’Accademia di Brera. L’incontro con l’astrattismo milanese avviene nel corso degli anni Trenta. La svolta lo porterà a sperimentare l’astrazione anche nelle opere in ceramica, material che inizia a lavorare ad Albissola, poi presso le Manifatture di Sèvres esponendo e vendendo in Francia. Immediatamente riconosciuto come talento dai maggiori critici partecipa alla Triennale di Milano, alla Biennale di Venezia e alla Quadriennale di Roma. Durante il secondo conflitto mondiale rientra in Argentina dove redige il “Manifesto Blanco” elaborando la teoria sulla quale si basano le opere spazialiste. Tornato a Milano nel 1947 fonda il movimento spaziale e ne pubblica con altri artisti il Manifesto. Al quale seguirà un Secondo Manifesto. Nel 1950 si apre la stagione delle tele forate e dei “tagli” che continuerà a praticare fino all’ultimo. Riceverà il primo premio per la pittura alla XXXIII Biennale di Venezia per la sala bianca: una serie di tele dipinte di bianco con un unico taglio. Non si limiterà a questa sperimentazione, lavorerà su formati diversificati e materiali come metallo e non solo; una sua opera campeggia su Piazza Duomo a Milano, trattasi di neon art.

Tra le opere della collezione un Cristo sulla Croce in ceramica del 1951. Simonetti all’atto della consegna lamenta la mancata chiusura della ceramica nel punto delle ginocchia e in risposta l’artista fa notare come potessero essere massacrate le ginocchia del Cristo dopo la salita al Calvario.

L’artista è rappresentato nella collezione anche da una serie di Concetti Spaziali che lasciano ben intendere e comprendere l’importanza della composizione cromatica sulla tela che accoglie il gesto dell’artista e in un dinamismo spazio temporale esprime il concetto unitario di spazio-tempo come inteso dall’artista. “Fare dell’arte è una delle manifestazioni dell’intelligenza dell’uomo; difficile stabilirne i limiti, le ragioni, le necessità. Non ci può essere una pittura o una scultura spaziale, ma solo un concetto spaziale dell’arte. L’elemento nello spazio in tutte le sue dimensioni è la sola evoluzione dell’architettura spaziale. Vi è un’arte che non può essere per tutti e questo vale anche per le altre manifestazioni creatrici dell’uomo, l’umanità le subisce, e solo a questo dobbiamo le nostre civiltà. L’unica libertà è l’intelligenza”(L. Fontana Galleria del Naviglio, 18 aprile 1953)